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24 maggio 2011

La Roma è fede pura e Totti è il suo profeta

"Ite, missa est" così si è concluso il Campionato. "Andate in pace, la messa è finita" e ho provato lo stesso sollievo di quando, bambina, mi congedavo dalla messa domenicale, felice di tornare a casa. Spalle al campo, libera dal male.
«Rendiamo grazie a Dio!», ho pronunciato nel mio
cuore, desiderosa di veder finire una stagione brutta,
sprecata, inutile. La Santa Messa fatta di due letture, un salmo e il vangelo è la metafora più calzante per le partitedell’As Roma, fatte di due tempi, un intervallo e un vangelo: Francesco Totti. Il Messia del gioco in campo: quello che corre, che segna, che ha la maglia sudata e che, qualche volta, finisce anche in croce per la salvezza della sua squadra. I fedeli erano tutti schierati pronti a espiare un solo peccato, quello di crederci, crederci sempre.
E i discepoli in campo hanno spesso deluso. Mirko, Sandro e io eravamo come i ragazzini in fondo alla chiesa, vicino all’uscita, pronti a catapultarsi fuori all’aria aperta. La Curva Sud sembrava il coro ordinato dei ragazzi dell’azione cattolica (certo i testi erano meno "puri" di quelli parrocchiali ) e quando "Un Capitano, c’è solo un Capitano" si è levato in aria, l’eco ha riempito lo stadio vuoto assumendo una solennità religiosa.
Alma non stava bene e non è potuta venire. Colpa delle gambe capricciose, stanche anche loro di condurla sull’altare sacrificale di uno spettacolo che non merita la sua immolazione. Aveva preparato due bottiglie di spumante per brindare e festeggiare la fine di un campionato che, di esaltante, ha promesso tanto e regalato poco. Il resto della banda era schierata: la mitica Antonella, trafelata per colpa del traffico sull’Aurelia, vicino a lord Fabietto, fuggito dalla Basilicata pur di essere presente. Sulla stessa fila little Matteo, reduce da una vittoria a Baseball (finalmente!). Una fila sopra, Sandro, impegnato a battere le mani a Capitan Totti. Marco era a casa, questa volta ha mantenuto la parola. Mirko e Christian commentano già la tristezza della domenica orfana del calcio. In un angolo dei Distinti Nord, il mio sguardo si posa ammirevole su un piccolo quadrato di tifosi sampdoriani che non hanno smesso un attimo di sventolare le bandiere blu cerchiate. Un solo striscione ai loro piedi e la scritta che urlava: Ti Amo. Circa cinquanta innamorati arrivati da Genova per tifare una squadra già retrocessa in serie B. Sono loro la parabola del calcio. L’amore vince sempre, e avere fede è l’unica soluzione. Io ce l’ho. In Totti e nella maglia. Lui è la professione di fede di chiunque si riconosca un romanista vero. Lui ha, nel bene e nel male, plasmato la squadra a sua immagine e somiglianza. Tutto il resto non conta più. E così sia.

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